Adesso però qualcosa da scrivere ce l'ho. A parte il fatto che mi laureo e che quindi ormai il mio percorso di studente uni è finito, devo dire che ho rivisto un film che avevo visto solo a spezzoni e che mi ero sempre ripromesso di finire.
Non è un mistero che io sia un fan di Emir Kusturica, che considero alla stregua dei pittori fiamminghi: i suoi film, al di là di tutte le vicende tragiche che raccontano, di una Jugoslavia martoriata dalla guerra ma sempre capace di vivere in un'allegria sgangherata (bella definizione della copertina del film: <
Proprio la simbologia è forse uno dei tratti più salienti di Underground, ed è un tratto che si comprende solo nel finale, quando l'osservatore capisce come l'uccisione del fratello da parte del protagonista simboleggia la continua strage compiuta tra popoli slavi fratelli, che sotto Tito avevano raggiunto quella dimensione familiare che l'eterna aspirazione di tutti i Balcani.
Allo stesso modo, l'immaginaria rete di strade sotterranee che collega i vari stati d'Europa è un modo per dire come il legame che unisce i popoli europei sia allo stesso modo profondo e poco visibile. La genialata è rappresentata dalle numerose tabelle collocate in queste gallerie sotterranee che indicano la direzione per le varie capitali d'Europa, in un continuo traffico di gente che scappa dai Balcani in fiamme per rifugiarsi in Italia, Germania, Grecia, dappertutto pur di scappar via.
L'idea portante è quella di una comunità di serbi di Belgrado che, allo scoppio della seconda guerra mondiale, decide di rifugiarsi in un bunker sotterraneo dove attende la fine dei combattimenti. Una piccola comunità (quasi) autosufficiente, che costruisce armi che poi però finiscono nelle mani del protagonista, l'unico trait d'union tra essi ed il mondo esterno, colui che per quindici anni tiene loro nascosta la fine del conflitto, in modo da arricchirsi. La sua è però un'azione che, se da una parte riprovevole per lo sfruttamento che opera a loro danno, è anche (lo dice lui stesso) un modo per difendere questi uomini dal brutto del mondo, un mondo che nel frattempo cambia e che essi fanno fatica a riconoscere una volta usciti. E' un po' la metafora dell'uomo che si sente Dio, che nasconde all'umanità il brutto del mondo, facendoli vivere in un universo quasi perfetto, dove il cibo-pappa per cani è lo scotto (una sorta di ignoranza) da pagare per potere vivere in una realtà protetta. Quando, infatti, complice la compagna del protagonista-Eva, si presenta la possibilità per i reclusi di uscire a combattere in quello che credono ancora un mondo in guerra, si presenta loro una realtà differente da quello che si immaginavano, un mondo nel quale non si riconoscono più, dove non riescono più ad inserirsi ed in cui perdono la propria identità.
E', in fin dei conti, uno dei tanti colpi di genio di un film pieno di rimandi, politici, religiosi e filosofici, un classico che, come indica il termine stesso, non finisce mai di dire qualcosa.
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